La nascita di Venere – Botticelli

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La Venere Andiòmene, cioè ” nata dalla spuma di mare” è uno dei capolavori di Sandro Botticelli, risalente al 1485, situata nella Galleria degli Uffizi a Firenze.

Sostenuta da una conchiglia, Venere è sospinta dal soffio dei venti verso terra, dove una figura : Flora, divinità femminile, l’attende per rivestirla con un manto dal colore purpureo.
Ella è situata al centro della composizione e su di lei convergono altre figure, le quali donano una continuità e un’intimità che non disturba mai l’occhio dell’osservatore.
Il corpo di Venere, il nudo tanto celebrato e temuto, dona perfetta armonia al quadro in quanto il corpo è sinuoso ed affusolato, accompagnato dai lunghi capelli dorati.
Il viso della ragazza nasconde un velo di malinconia, ma nonostante ciò è carico di serenità; il viso così angelico della ragazza, toglie al nudo ogni tipo di considerazione maliziosa o seducente, acquistando un valore molto più alto della semplice carnalità umana.
Il mare e il cielo dietro la Venere, non sono interrotti da nessuno stacco, anzi si può ben notare che la costa segue l ‘andamento armonioso del mantello floreale che la ninfa vuole cedere alla ragazza.
Con la nascita di Venere, Botticelli non vuole celebrare la bellezza della divinità dell’amore, ma con questa vena melanconica accentua la  presa di coscienza sulla caducità delle cose.
Alla sua sinistra c’è Zefiro che le soffia leggermente sul viso accompagnato da quella che rappresenterà l’amore fisico.
Alla sua destra troviamo una delle Ore che sta a rappresentare la grazia della primavera.

La grande crisi dei valori è ormai vicinissima a Firenze, e dunque questa drammatica condizione socio-politica, il cui protagonista è il frate Savonarola, fa conoscere una forte crisi anche agli artisti dell’epoca: è visibile infatti anche la tristezza a delle forme e dei colori nel quadro, poiché le forme sinuosi ed eleganti di venere si vanno via via sciogliendo attraverso le inquietanti sponde e le surreali onde del mare ai piedi della giovane fanciulla.

La Musa di Botticelli per quest’opera fu Simonetta Vespucci, ragazza che morì a soli ventitré anni, ma che fu oggetto di grande ispirazione per i poeti e i pittori del fine ‘400.

Viandante sul mare di nebbia 

Friedrich Schiller, uno dei maggiori esponenti della pittura tedesca dell’Ottocento,  si impegnò specialmente in paesaggi allusivi e pervasivi dal senso del mistero.

Prendendo in considerazione il quadro del “Viandante sul mare di nebbia” notiamo la presenza della Rückenfigur: si tratta di un personaggio visto di schiena, perso nella contemplazione della natura. Questa escogitazione figurativa fa sì che l’osservatore si immedesimi nella figura del viandante e nella sua situazione psicologica ed emotiva.Nella figura del pellegrino rapito dalla voragine brumosa Friedrich sintetizzò magistralmente idee e suggestioni tipicamente del proprio tempo, tanto che il Viandante sul mare di nebbia è considerato un’icona del Romanticismo tedesco.

Per l’artista tedesco, lo scopo dell’arte non era quello di riprodurre l’ambiente naturale, ma  l’espressione di un sentimento.Dunque, egli scrisse: “il dovere dell’artista non è la  rappresentazione fedele degli elementi naturali ma il riconoscere lo spirito della natura, comprenderlo e renderlo con tutto il cuore e il sentimento”.

I colori di Friedrich , in quest’opera, sono composti da toni luminosi, e comprendono una mescolanza luminescente di blu, grigi, rosa e gialli per il mare di nebbia, contrapposta alle tonalità opache e fangose per le rocce: questo forte stacco cromatico tra le tonalità chiare e quelle scure esalta la contrapposizione tra gli elementi reali (l’uomo e le rocce) e quelli indefiniti (il mare di nubi), caratterizzati da pennellate molto veloci, liquidi e vaporose. La luce, infine, sembra nascere da una fonte collocata al di sotto delle rocce in primo piano, inondando la scena e rischiarando in qualche modo l’abisso nebbioso.

L’opera trasmette messaggi multiformi, sottolineando i temi dell’infinito, del sublime e dell’errabondo. È una chiara manifestazione del senso di imperfezione, sperimentato dall’uomo durante la contemplazione dell’Infinito, qui rappresentato dall’immenso mare di nebbia che impedisce la vista del paesaggio sottostante. Il viaggiatore romantico si perde di fronte al baratro in un atteggiamento contemplativo visto come esperienza interiore e spirituale: in questo modo, egli indaga nella la propria anima, con tutte le sue insicurezze, i suoi errori, i suoi dubbi e certezze.È proprio l’eroico isolamento del viandante a celebrare una presenza nel Romanticismo: il sublime, ovvero lo stato d’animo misto di sgomento e piacere percepito dall’uomo quando diviene consapevole della stupefacente grandiosità della natura.Questa potenza irresistibile non annienta il viandante, bensì lo porta a riflettere  sulla sua condizione di essere umani , consentendogli quindi di unirsi al divino. I paesaggi di Friedrich sono infatti carichi di simbolismi religiosi, ma prigionieri di una strana malinconia.

Alla sublimità della natura, infine, si unisce il tema dell’errabondo. L’uomo ritratto nel quadro, oltre che solitario, è infatti anche un homo viator, un pellegrino (da come si può dedurre dal bastone): questa condizione si ricollega alla figura dell’esule «bello di fama e di sventura», tipica della cultura romantica.

La scuola di Atene

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All’interno di un immaginario edificio classico, Raffaello Sanzio ci fa entrare in una dimensione alternativa in cui possiamo venire a contatto con alcuni dei più grandi intellettuali di tutta la storia.

Con questo affresco, situato nei Musei Vaticani nella stanza della Signatura, possiamo osservare una “divisione” tra le persone; una divisione creata da una piccola scalinata, in cui al centro troviamo due figure identificate come Platone ed Aristotele.
Il quadro è stato analizzato a sezioni, in cui specifici personaggi sono riconoscibili nel gruppo di destra e in quello di sinistra.

Il titolo “Scuola di Atene” gli viene attribuito dopo anni dalla sua realizzazione, in virtù del fatto che storicizzando l’opera, viene a cadere l’elemento di centralità della chiesa.
Lo scopo dell’autore era quello di mostrare la volontà umana nello sforzarsi per arrivare alla conoscenza del vero e del bello; infatti è posto difronte ad un altro dipinto ” La disputa del sacramento” inno alla fede e alla religiosità.
I due affreschi sono dunque un chiaro esempio del contrasto esistente tra cultura classica e cristiana, che, seppur nemiche sono state fondamentali per lo sviluppo culturale del primo cinquecento.

Dunque, la Scuola di Atene è una celebrazione del pensiero umano e dell’arte, poiché vengono rappresentate le sette arti liberali: la grammatica, l’aritmetica, la musica, la geometria, l’astronomia e in cima a tutto la retorica e la dialettica.
L’artista pone al centro del quadro l’uomo, poiché vuole intendere che con lo sviluppo del pensiero umano, quest’opera diviene un chiaro manifesto della concezione antropocentrica dell’uomo rinascimentale.

Concentrandoci sugli elementi generali, possiamo notare uno sfondo dotato di ottima prospettiva; un arco libero da cui si può intravedere un cielo limpido.
Ai lati, sono collocate due statue che rappresentano Apollo e Minerva.
Sotto Apollo si trova una “lotta degli ignudi” che sta a simboleggiare le miserie dell’animo umano come quella della guerra. Sotto Minerva, l’elemento che salta all’occhio è la presenza di un uomo che ha la migliore su di un bovino, per simboleggiare la vittoria dell’intelligenza umana sul mondo animale.

Platone ed Aristotele essendo al centro, vengono rappresentati come “esterni” alla composizione, per sottolineare il significato che il vero, che il loro pensiero, ha caratteristiche sintetiche che possono sopravvivere autonomamente.
Platone è disegnato con il volto di Leonardo Da vinci e il suo dito indica l’alto per affermare che l’oggetto di ricerca principale della filosofia è il bene, dunque la sfera celeste.
Aristotele vene rappresentato con il volto di Bastiano da Sangallo, il quale ha il braccio verso la terra proprio per affermare il legame che l’uomo deve avere con il mondo terreno (la realtà intellegibile).

Per le descrizioni degli altri personaggi, ci affidiamo a fonti già definite:

A sinistra di Platone troviamo personalità come Socrate, Alessandro Magno, Senofonte ed Alcibiade.
All’estrema sinistra, attorno alla base di una colonna, Zenone di Cizio vicino a un fanciullo, che regge il libro letto secondo alcuni da Epicuro. Pitagora è seduto più avanti, in primo piano, mentre legge un grosso libro e forse Telauge gli regge una tavoletta. Nella tavoletta si leggono segni simbolici, riprodotti anche dallo Zarlino, che sono stati visti come schemi delle concordanze musicali, cioè la suddivisione tipicamente pitagorica dell’ottava musicale e la forma simbolica della Tetraktys.Dietro di lui Averroè col turbante, che si china verso di lui, e un vecchio che prende appunti, identificato con Boezio o Anassimandro o Senocrate o Aristosseno o ancora Empedocle. Davanti si trovano un giovane in piedi di controversa identificazione e Parmenide o
Aristosseno. Verso il centro Eraclito, isolato, poggia il gomito su un grande blocco.

Il personaggio sulla sinistra, di fianco a Parmenide, dai tratti efebici, biancovestito e con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, è di identificazione controversa, anche se una identificazione generalmente accettata è quella di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e nipote del papa Giulio II, che all’epoca del dipinto si trovava a Roma e ai cui servigi Raffaello doveva forse la venuta a Roma. Secondo l’ipotesi di Giovanni Reale questa figura biancovestita è un “simbolo emblematico dell’efebo greco ovvero della “bellezza/bontà”

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Il gruppo a destra di Aristotele è di difficile interpretazione. L’uomo stante, vestito di rosso, dovrebbe essere Plotino, in silenzioso isolamento. Al centro sta sdraiato sui gradini Diogene, con i chiari elementi iconografici (l’abito lacero e l’atteggiamento di ostentato disprezzo del decoro e la ciotola).

In primo piano si trova un gruppo centrato su Euclide (secondo alcuni studiosi si tratterebbe di Archimede, in ogni caso la figura è raffigurata con le sembianze del Bramante), intento a enucleare un teorema tracciando figure geometriche, attorniato da allievi; alcuni decori sulla sua tunica sono stati interpretati come la firma di Raffaello (“RVSM”: “Raphaël Urbinas Sua Manu”).

Dietro di lui, l’uomo coronato che dà le spalle allo spettatore e regge un globo terracque in mano è Claudio Tolomeo, che a quell’epoca era ancora confuso con un faraone della dinastia deiTolomei[4]. Davanti a lui si trova un uomo barbuto, forse Zoroastro, e dietro due personaggi di profilo, in vesti contemporanee, in cui si è voluto vedere la raffigurazione ad autoritratto di Raffaello stesso e quella, più improbabile, dell’amico e collega Sodoma, che ha lavorato al dipinto sulla volta ed a cui alcuni hanno attribuito un ruolo anche nell’esecuzione dell’affresco stesso. L’identificazione di Sodoma è però da alcuni ritenuto improbabile, giudicando l’età dell’effigiato molto maggiore ai trentatré anni che l’artista aveva all’epoca; si sono fatti allora i nomi del Perugino, antico maestro di Raffaello, che all’epoca aveva l’età di circa 60 anni (ma che contrasta con le fattezze del pittore tramandate nel suo autoritratto) o di Timoteo Viti.
La presenza di Raffaello tra i filosofi è stata così spiegata da Giovanni Reale (1997): «L’arte di Raffaello è un attenuarsi di quella metafisica “giusta misura”, che per Platone coincide con il Bene e con il Vero e […] dunque è godimento supremo del Bene e del Vero mediante il Bello. e credo che con la firma di “piccolo tra i grandi”, Raffaello intendesse presentarsi anche come filosofo appunto in questa dimensione: l’arte è alta filosofia, come esplicazione delle armonie numeriche del bello visibile, armonie che costituiscono, in ultima analisi, la struttura dell’essere».

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La scuola di Posillipo

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« La bellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli, e i molti forestieri che ne chiedono sempre qualche ricordo disegnato e dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti i quali, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati della Scuola di Posillipo, dal luogo dove abitavano per essere più vicini ai forestieri. Essi non facevano che in origine di copiare vedute, ma gli inglesi hanno generalmente molto gusto per questi lavori, li giudicano e li pagano bene. Fu perciò necessario migliorare, e la Scuola di Posillipo fece infatti progresso, e crebbe di numero »

Con le parole di Pasquale Villani, risalenti al 1867, possiamo ben capire quale fosse la reputazione dei pittori che abbracciarono questa corrente artistica, la quale poneva le stesse basi “filosofiche” dell’impressionismo.
La scuola nacque grazie ad un artista olandese, residente a napoli dal 1816: Anton Sminck van Pitloo.
Nell’ambiente , si crearono dei veri e propri nuclei familiari come ” I Carrelli” i “Fergola” e i “Gigante”.
Uno dei “Gigante” , Giacinto, fu molto apprezzato poiché, dopo la morte di Pitloo, egli divenne il direttore della scuola, facendosi riconoscere a grazie al suo stile luminoso e liquido.

La pittura ” en plain air” essendo sottostimata, e lontana dai vincoli accademici, fu molto apprezzata ed accolta proprio per la sua libertà e per i suoi toni romantici.
Furono specialmente gli stranieri, in primis gli inglesi, a credere in questa corrente, tra cui William Turner, il francese Camille Corot, Johan Christian Dahl, che fu autore di vere e proprie scene napoletane ed infine il belga Frans Vervloet che fu di vitale importanza per la formazione scolastica.

La fase artistica non conoscerà mai crisi, poiché il tutto sfocerà nell’arte della”cartolina”, in cui sarà possibile mostrare la bellezza di Napoli in qualsiasi posto nel mondo, in qualsiasi lettera d’amore.

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Danae

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Danae è un dipinto ispirato all’ eroina greca Danae appunto, figlia del re Argo Acrisio, il quale venne a sapere che se mai ella avrebbe avuto un bambino, questi una volta cresciuto lo avrebbe ucciso.
Il padre dunque, decise di rinchiuderla in una torre di avorio, ma Giove riuscì a ingravidarla lo stesso inviando Cupido nella sua camera con una manciata di polvere d’oro, che avrebbe deposto nel grembo della giovane.
L’invenzione del Correggio risulta straordinaria poiché nei testi non si è mai nominata la presenza della polvere d’oro, e dunque l’elemento della gravidanza acquista un viso più dolce e delicato.
Danae è distesa su di un letto e ai suoi piedi due angioletti forgiano le freccie dell’arco di Cupido.
A differenza degli altri quadri, il viso della giovane non mostra malizia e l’eros non ha una componente forte, in quanto ella accoglie le gocce d’oro con tenerezza e il rapporto sessuale non viene né rappresentato né immaginato.
Correggio gioca molto con i colori, specie con i contrasti come quelli che regnano nella stanza, tra i muri e il bianco candido delle lenzuola.
L’illuminazione proviene direttamente dalla nube dorata, ma non disturba quasi mai l’occhio dell’ammiratore, poiché il tutto è condizionato dalla luce argentina che proviene dalla finestra della torre, la quale pone un vivo contrasto tra la realtà del mondo esterno e la vita della fanciulla rinchiusa nell’abbraccio della stanza.
L’accostamento di colori e il gioco delle luci ci fa ipotizzare che Correggio abbia studiato la scena con soggetti veritieri.

Il ratto di Ganimede

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Secondo il mito, Giove, invaghitosi del bellissimo fanciullo troiano Ganimede, un giorno decise di trasformarsi in un aquila, rapirlo e portarlo con sé nominandolo coppiere degli dei.
Per Platone, questo mito è stato ideato dai cretesi per giustificare le relazioni che avvenivano tra uomini e ragazzi; mentre invece nel Rinascimento, il ratto di Ganimede stava a simboleggiare l’estasi dell’amore platonico, che nasce aldilà di ogni miseria del corpo umano.

Se nei quadri precedenti abbiamo apprezzato l’abilità del Correggio nel dare forma ad eventi atmosferici, qui possiamo ammirare appieno la sua abilità nel rendere veritiere le figure in volo ( data la sua esperienza nel decorare la cupola di San Giovanni Evangelista e quella del Duomo di Parma),il viso di Ganimede è dolce, morbido e simboleggia tutta l’innocenza che lo caratterizza.
Secondo Correggio, la figura del cane che si trova in basso, arriva immediatamente all’osservatore e sta a simboleggiare l’immensa forza che ha l’attività terrena.

Si ipotizza che questa tela fu commissionata dai Gonzaga, infatti l’elemento Aquila lo si può trovare anche sullo stemma della famiglia.

Leda

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Continuando la nostra avventura negli “Amori di Giove” di Correggio, incontriamo la regina Leda, la quale nel mito si accoppia con un cigno incarnato da Giove, rendendola madre di 4 gemelli : Elena, Polluce, Castore e Clitennestra.
Nel quadro si possono scorgere dei momenti cronologici, infatti al lato destro, ci sono due giovani fanciulle che rappresentano Leda prima e dopo l’accoppiamento.
La ragazza che appare più giovane in estrema destra, è una Leda ragazzina restia ai giochi del cigno, infatti cerca di allontanarlo.
Quella più interna, che si accinge a rivestirsi, è Leda divenuta adulta, colei che rivolge lo sguardo innamorato al suo cigno che vola via, sapendo che presto diventerà madre.
Sulla sinistra, i puttini accompagnano la coppia con i suoni della cetra, e al centro si ha la scena dell’unione tra Giove e la regina.
Questo quadro è stato sottoposto a restauro per anni, poiché il devotissimo Luigi D’orleans, ritenendolo troppo lascivo, decise di infliggere una coltellata alla tela, proprio in corrispondenza di Leda.
Per nostra fortuna, il quadro è stato restaurato abilmente da  Jakob von Schlesinger.

Giove ed Io

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Giove ed Io è un quadro appartenente alla serie “Amori di Giove” databile al 1532 – 1533, in cui viene rappresentato il Mito di Io, narrato nelle Metamorfosi di Ovidio.
Io era l’ancella di Era, la moglie di Giove.
Giove, essendosi invaghito della fanciulla, ma timoroso della gelosia della sua compagna, fece calare una fitta nebbia sulla terra e riuscì a sedurre l’affascinante ragazza.
La posizione di Io era ispirata all’arte antica, poiché gli atteggiamenti e le pose erotiche che venivano raffigurate erano una peculiarità di quei tempi.
A differenza del periodo antico, negli anni del Correggio, la massima abilità artistica era quella di saper dipingere i fenomeni atmosferici come la pioggia, il vento e in questo caso la nebbia; infatti, Correggio fu apprezzato proprio per la sua capacità di donare delle forme umane ( come il volto e il braccio di Giove) alla sua nube nera.
Il particolare meno evidente, ma che conferma la maestria dell’artista è il piccolo ruscello ai piedi della ninfa, che chiude il quadro ed accompagna con eleganza l’unione dei due amanti in un magico incontro di luci crepuscolari.

La creazione di Adamo

Dal Padre al Figlio

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La “creazione di Adamo” è un affresco (1511)  facente parte della decorazione della volta della Cappella sistina, nei Musei Vaticani in Roma.

In quest’opera Adamo ha un aspetto giovanile quasi adolescenziale, e il suo viso non ha espressioni particolari, in quanto Michelangelo preferì definirlo come un essere umano che è ancora incerto delle sue azioni, ma che procede in modo quasi magico nel porgere il suo braccio; è disteso su una specie di prato che pare situarsi sul ciglio degli abissi e tende la sua mano verso l’Eterno;
Dio, sostenuto da una schiera di angeli giovani, si avvicina a lui.
Le due mani che stanno per sfiorarsi, donano allo spettatore la sensazione di una scintilla che sta per passare dal Creatore all’uomo mortale.
Probabilmente, Michelangelo non volle unire le due dita, proprio per ricordare a noi uomini, che il raggiungimento della perfezione divina è impossibile.
Gli elementi anatomici sono alquanto evidenti, poiché l’artista, avendo trascorso molti anni a dissezionare cadaveri, aveva imparato a riconoscere e a riprodurre le parti del corpo; infatti, l’aurea rossa che circonda Dio e gli angeli, è un chiaro riferimento all’utero post-partum: da qui dunque l’elemento femminile, imprescindibile se si parla di creazione.
Il nudo, invece, rappresenta la massima espressione della dignità umana: l’uomo era finalmente rappresentato a immagine e somiglianza di Dio.; il corpo dunque, rappresenta l’emanazione delle facoltà spirituali, nonché l’opera più grande della creazione divina.

Se dunque vi troverete mai a contemplare questo spettacolo, ricordate che il vostro naso sarà all’insù, e i vostri piedi fluttueranno a qualche centimetro di distanza dal pavimento; poiché tra i tanti significati che ha insita l’opera, uno arriva comunemente e presto a tutti noi: la creazione di Adamo ci fa accettare la nostra condizione di mortali, ci dona la capacità di perdonare le nostre sciocche debolezze, e ci fa capire dolcemente  che dentro l’essere umano c’è sempre qualcosa di divino.

Vasari scrisse: «[Nella] creazione di Adamo, [Michelangelo…] ha figurato Dio portato da un gruppo di Angioli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maiestà di quello [Dio] e la maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga, e con l’altro porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che e’ par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore più tosto che dal pennello e disegno d’uno uomo tale»

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Il ratto di Proserpina

Il ratto di Proserpina.

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Per Bernini, le metamorfosi di Ovidio sono state oggetto di grande ispirazione come abbiamo già precisato nel nostro articolo su Apollo e Dafne (https://thebiosphereofart.wordpress.com/…/16/apollo-e-dafne/)

Il ratto di Proserpina è un mito legato al ciclo delle stagioni.
Proserpina, figlia di Giove e Cerere, viene rapita da Plutone in quanto vuole assolutamente che ella diventi sua moglie.
La madre della ragazza, colta dallo sconforto per l’assenza della figlia, abbandona i campi causando una gravissima carestia; a questo punto, Giove propone una mediazione con Plutone: Proserpina avrebbe trascorso sei mesi con la madre (periodo di terra fertile) e sei mesi con Plutone nell’Ade (periodo invernale e di carestia) .

Bernini, con la sua arte, riesce a cogliere benissimo il momento in cui Plutone rapisce Proserpina.
Il Dio, accompagnato dal suo Cerbero,è impossessato da un atteggiamento fiero, ha l’espressione calma e convinta; mentre invece l’espressione di Proserpina è simbolo di terrore e disperazione ( si può anche notare una lacrima sui dettagli del viso).
*L’elemento che contraddistingue questa statua, rendendola una delle migliori dell’artista, è la mano di Plutone che stringe la coscia di Proserpina, creando nel marmo la morbidezza della carne.*

Lo schema geometrico è a spirale, infatti le posizioni dei due soggetti sono completamente innaturali, ma donano una sensazione di moto mai creata prima.
Infatti, dalla posizione dell’osservatore, l’impatto nei confronti della statua è molto forte: le sensazioni contrastanti arrivano subito, e anche all’occhio gli elementi decorativi incuriosiscono sempre più il pubblico.
La tecnica sopraffina del Bernini, ci fa comprendere che i dettagli da lui scolpiti sono stati progettati, contemplati e voluti con tutte le sue forze.
Siamo davanti a uno dei più grandi capolavori dell’arte Barocca, siamo davanti al genio creativo di Gian Lorenzo Bernini.

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